è il nuovo film di errol morris, su abu ghraib, visto a milano il 29.11 nella rassegna di filmmaker.
l'unico punto di partenza oggettivo per studiare l'accaduto sono le foto, e sulle foto em lavora ossessivamente: fin dai titoli le presenta e ripresenta, parla con chi le ha scattate, con chi era lì con chi le ha analizzate a posteriori. come sempre le sue interviste sono bellissime, tridimensionali, attente, e non si sentono mai le domande (tranne, come al solito, qualche sua precisazione quasi urlata fuori campo).
poi, un altro suo metodo ricorrente, ci sono le sequenze delle ricostruzioni. questa volta persino il «new york times» (sul cui sito morris tiene un blog) sembra suggerire che abbia un po' esagerato (recensione).
e per quanto io abbia amato la serie first person e i lungometraggi precedenti, è difficile non avere questa impressione. la scelta è di suggerire allo spettatore il peggio che le foto possano suggerire, pur con lo scopo condivisibile di mettere in discussione la moralità dei metodi definibili dall'esercito «procedura operativa normale».
dal blog, la teoria di errol morris sulle ricostruzioni nel documentario:
I used to tell people I was only re-enacting subjective accounts, I was never re-enacting reality, per se. Now I look at it differently. It is a part of an investigative process. I take a retrospective verbal account, and then try to bring the audience’s attention to a specific detail that will allow them (and me) to think about some detail, what it means, what it tells you about reality. It allows you to think about a scene in a different way.
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