ho visto qualche anno fa hedda gabler e ieri sera madre e assassina.
è incredibile quanto sia elastico il dispositivo teatrale, posta come unica condizione la presenza degli spettatori.
loro usano molto il video,* e qui la cosa è portata alle estreme conseguenze: dell'azione teatrale si vede un preciso simulacro videoproiettato e filtrato da un altro schermo, trasparente - le voci ci sono, invece, vere (alla fine dello spettacolo i due schermi si abbassano svelando gli attori e la scatola del teatro) - tranne quando, con un brusco scarto, ci si trova un attore in carne e ossa lì a un metro, in platea.
un meccanismo raffinato applicato a una materia cupa e viscerale: direi che serve, perché non si vuole spiegare ma far osservare, lavorare su piani diversi per esplorare diverse dimensioni dei personaggi (che prima di essere personaggi teatrali sono personaggi di un fatto di cronaca, personaggi televisivi, forse anche personaggi cinematografici, vista la citazione dell'ambientazione anni cinquanta). per questo, credo, il testo è ridotto all'osso - a una sceneggiatura che sa di esserlo, fatta salva la battuta finale «una cosa non sopporto: che di tutto si cerchi di fare poesia» - e giustamente banalizzata la tentazione di una spiegazione puramente sociologica del delitto.
uhm, sì, il tema dello spettacolo è una madre che uccide in puro stile film horror i due figli, ma nel parlare dello spettacolo a me veniva da dire - al posto di infanticidio, che comunque non andrebbe bene perché i figli non sono piccoli - matricidio: c'è materia per lo specialista, mi pare.
* «Quello che la cultura dell’immagine ci ha tolto, il teatro ce lo restituisce nella sua sola grande regola del qui e ora, ma trasfigurato, SPETTRO.» (tc)
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